Il trionfale successo linguistico e culturale dei poeti toscani del trecento, che hanno fatto assurgere in breve tempo il proprio dialetto a lingua predominante e di riferimento in tutta la penisola, facendola diventare la lingua italiana, hanno per un altro verso spinto ingiustamente nell’ombra tantissimi altri autori di ogni regione d’Italia che per tutto il tardo medioevo e l’età moderna hanno continuato a comporre, soprattutto rime, sia liriche che satiriche, nel proprio dialetto locale. Nel novero di questi semisconosciuti rientra Antonio Veneziano, poeta siciliano del ‘500, la cui vita fu peraltro segnata da continue vicissitudini.
Nato a Monreale (Pa) nel 1543, in una famiglia ricca e agiata, ben inserita nell’amministrazione cittadina, all’età di soli 4 anni rimase orfano di padre. Mentre gli altri suoi fratelli maggiorenni acquisirono già la loro parte di eredità, Antonio essendo ancora minorenne venne affidato ad uno zio arciprete, che lo avviò alla carriera ecclesiastica. Fino all’età di vent’anni studiò a Palermo, Messina e Roma come novizio gesuita, ma nel 1563 al momento di pronunciare i voti definitivi per l’ordinazione, ci ripensò e preferì tornare in Sicilia, nella casa paterna di Monreale. Una volta lì tuttavia dovette affrontare la rivalità dei fratelli per riuscire ad entrare in possesso dei beni ereditari che gli spettavano.
Non passò molto tempo che il mancato uomo di chiesa dovette affrontare un’altra grana: Nicolò, uno dei suoi fratelli, venne accusato di omicidio, forse ingiustamente, in seguito ad una rissa, e lui stesso e un altro fratello, Giovanni, vennero accusati di complicità. Antonio Veneziano, forte dei suoi studi di diritto a Roma, riuscì egregiamente a tener testa alle accuse, sostenute soprattutto dai molti nemici della sua famiglia, ma alla fine non riuscì a impedire che lui e gli altri suoi due fratelli venissero incarcerati per un anno al Castello a Mare di Palermo, dove vennero anche interrogati sotto tortura. Il processo comunque si concluse con la condanna all’esilio dei tre fratelli dal territorio di Monreale, ed Antonio, non potendo più disporre dei suoi beni, usurpati dai suoi familiari, venne allora accolto nella casa della sorella Vincenza a Palermo.
Per qualche tempo il Veneziano rimase tranquillo tra la lettura dei libri e le prime composizioni poetiche, soprattutto in dialetto siciliano. Ma nel 1573 si invaghì di una bella ragazza di buona famiglia, una tal Francesca Porretta, e ricominciarono i suoi guai. Poichè infatti i genitori di quest’ultima erano contrari, ai due innamorati non restò che la classica fuga d’amore (che in Sicilia come si sa è meglio conosciuta coll’appellativo di “fujtina”). La famiglia della ragazza la prese malissimo e il poeta di Monreale si vide piovere addosso non solo l’accusa di rapimento ma pure quella di furto, visto che per seguire il bell’Antonio, la fanciulla innamorata, ma previdente, si era portata dietro anche l’argenteria di casa. Le porte del carcere – il medesimo Castello a Mare (nell’immagine in un dipinto dell’epoca) che lo aveva in precedenza “ospitato” – gli si aprirono nuovamente, e oltretutto sua madre Allegranza, spinta dagli altri suoi fratelli, colse l’occasione per diseredarlo, reputando che portasse disonore al buon nome della famiglia. Per risposta, il Veneziano allora nominò sua erede universale la nipote Eufemia – figlia della sorella Vincenza, presso cui aveva abitato a Palermo – a condizione che non si sposasse né si ritirasse in convento, e questo dettaglio ha fatto sorgere a diversi storici il sospetto che la medesima nipote, che in realtà aveva la sua stessa età di 30 anni, fosse anche sua amante.
Forse appartengono proprio a questa sua seconda permanenza dietro le sbarre alcune rime pessimistiche come quelle sull’illusorietà e l’incostanza del mondo: Munnu, munnu infelici, ed incustanti, / jardinu senza frutti, ed apparenti / carzara di suspiri peni, e chianti, / laberintu di mali, e di turmenti. / Gaggia di pazzi, e riti d’ignuranti, / esiliu di li dotti, e sapienti. / Scena, chi pari allura ntra ddu stanti, / addimustra gran cosi, e nun c’è nenti. (Mondo, mondo infelice ed incostante, / giardino senza frutti ed apparente / carcere di sospiri, pene e pianti, / labirinto di pene e di tormenti. / Gabbia di pazzi, e rete d’ignoranti, / esilio per i dotti ed i sapienti, / scena che sembra allora, in quegli istanti, / mostrar gran cose, ma poi non c’è niente).
Dopo qualche anno, nel 1576, comunque Antonio Veneziano venne scarcerato e ritornò a Monreale, non senza aver imparato una grande lezione, e cioè che senza appoggi e amicizie potenti non si contava nulla in quel mondo di trame sotterranee e continui colpi bassi. Per farsi apprezzare si servì della sua cultura e della sua arte poetica, come con la composizione delle epigrafi per il monumento funebre di Guglielmo II (il re normanno del XII secolo) per conto dell’arcivescovo Ludovico I De Torres: “…colto, amabile conversatore, brillante oratore, di gentile e costumata presenza, di carattere fiero e ribelle, non era però tipo di piegarsi alle avversità. Riuscì ad entrare nei ranghi dell’amministrazione del Senato palermitano e a fare valere subito il suo ingegno, acquisendo l’amicizia e la benevolenza di uomini considerevoli come Vincenzo Bosco Conte di Vicari e del Vicerè Marco Antonio Colonna…” (da: Vincenzo Di Maria, I poeti burleschi dal 1500 al 1650, Tringale Ed.). Poichè aveva un certo talento anche come disegnatore – come testimoniano le illustrazioni di suo pugno allegate a molte delle sue rime – organizzò nel 1577 i festeggiamenti e le scenografie cittadine per l’ingresso solenne a Palermo del nuovo vicerè, appunto Marco Antonio Colonna. Ebbe sempre grande stima di quest’ultimo, e forse non soltanto di lui: si vociferava infatti che mantenesse una relazione segreta anche con la sua bellissima moglie, e conoscendo il Veneziano forse era vero.
Il poeta di Monreale tuttavia aveva a quanto pare anche il talento di attirarsi i guai anche quando non se li cercava di proposito. Nel 1578 decise infatti di seguire il nobile Don Carlo D’Aragona Duca di Terranova nel suo viaggio per mare fino in Spagna. Ma nel bel mezzo della navigazione le due sole navi di cui era composto il convoglio vennero assalite dai pirati saraceni e il Veneziano finì prigioniero ad Algeri. A quei tempi in realtà non era affatto remoto il rischio di venire catturati in mare dai pirati nordafricani che infestavano tutto il Mediterraneo. I prigionieri cristiani normalmente venivano trattati bene perché ci si aspettava per la loro liberazione un lauto riscatto da parte dei parenti o anche delle istituzioni civili e religiose che spesso si davano da fare anche per chi non poteva pagare. Ad Antonio Veneziano questo terzo periodo sotto chiave andò quindi tutto sommato bene, anche dal punto di vista culturale: tra i suoi compagni di prigionia vi fu anche lo scrittore spagnolo Miguel De Cervantes, il famoso autore del Don Chisciotte, da cui venne molto apprezzato per la sua capacità poetica nel ricordare la propria donna amata. Il poeta di Monreale compose infatti proprio nel periodo di Algeri la sua opera maggiore, la Celia, in cui canta una donna non meglio identificata, in uno stile petrarchesco, ma – secondo la critica letteraria – in forma più figurativa (Di Girolamo, 2015). In alcuni versi ad esempio la paragona al suono melodioso di uno strumento a corda: Sulu e ricotu cu li mei pinzeri, / tutti ad un tonu conformi e concordi, / sonu milli ayri finti ed opri veri / d’immagginazioni e di ricordi. / Calu fina a la rosa e acchianu arreri / e d’una in una tastiju li cordi: / gioia, tu sì la prima a stu curderi, / sula suttili, chiui auta e chi accordi. (Solo e raccolto coi miei pensieri, / tutti all’unisono conformi e concordi, / suono mille arie finte ed opere vere / d’immaginazione e di ricordi. / Calo la mano fino alla rosa [= il foro del liuto] e risalgo indietro / ed una ad una tocco le corde: / gioia, tu sei la prima fra tutte le corde, / la più sottile, che suona alta e accorda). [Celia, Libro II, 145].
Il medesimo Cervantes gli fece poi recapitare alcune sue rime in ottave in una lettera datata 6 novembre 1579 quando lui era già tornato a Palermo. Il riscatto venne infatti pagato in breve tempo dal Senato palermitano ed il suo ritorno in Sicilia suscitò molte acclamazioni. Forse fu proprio in conseguenza di questa larga messe di consensi e di applausi che il Veneziano venne preso da una forte ispirazione, ed oltre a molte composizioni serie (una Nenia, quattro Trionfi, intermezzi poetici, ecc.), scrisse anche le sue migliori opere satiriche (come La cornaria, Il puttanismo, ecc.), fustigando personaggi e costumi in maniera salace, anche se in realtà nel corso della sua vita nessuna sua opera venne data alle stampe. In quegli anni ricoprì a Monreale anche incarichi prestigiosi (consigliere cittadino e poi Proconservatore del Real Patrimonio) ma sempre con vena polemica e carattere irruento, come quando denunciò il clima di grave corruzione politica nella sua città natale, provocando quasi un’insurrezione popolare. Finchè alla fine non commise l’errore di prendersela con chi non doveva.
Il nuovo vicerè, il Conte di Albadalista, non stava troppo simpatico ai Siciliani, perché oltre che essere di carattere collerico, correva voce che portasse jella (e forse non senza motivo, a giudicare da quanto accadde in seguito). Sicuramente non stava simpatico neppure al nostro caro poeta. Fatto sta che il 1 dicembre 1588 comparve in Piazza Bonoli a Palermo un cartello anonimo che sbeffeggiava proprio il vicerè. Alquanto imbestialito, quest’ultimo ordinò di scoprire il responsabile e dopo un po’ di indagini i sospetti si appuntarono proprio su Antonio Veneziano. Il poeta venne portato ancora una volta nel Castello a Mare e lì sottoposto ad interrogatorio sotto tortura. Il Veneziano però non ammise nulla, e dopo un po’ di tempo il vicerè lo fece rimettere in libertà sperando che almeno avesse imparato la lezione.
Ma l’anno successivo, alla fine del 1590, il medesimo vicerè fu protagonista di un grave incidente: al ritorno da un viaggio, la sua nave distrusse accidentalmente il pontile di legno dove si erano radunati i nobili di Palermo per salutarlo, facendone annegare parecchi in mare. Anche per tale motivo il governo di Madrid decise di sostituirlo, e l’Albadalista già infuriato per la delibera della corte spagnola, divenne una vera belva quando venne a sapere che, sempre nella Piazza Bonoli di Palermo era apparso un altro cartello che lo canzonava. Questa volta alcuni testimoni, veri o presunti, denunciarono esplicitamente l’Antonio Veneziano e dunque prima di tornarsene nel 1591 a Madrid il collerico viceré menagramo ordinò di rinchiudere il poeta di Monreale nel solito Castello a Mare, di cui il nostro poeta era ormai diventato un abitué.
Da questo ennesima prigionia il poeta siciliano però non uscì più. Un paio di anni dopo infatti, il 19 agosto del 1593, il deposito della polvere da sparo della fortezza, non si sa come, prese fuoco facendo saltare in aria almeno metà castello e uccidendo un gran numero di persone, tra cui anche il Veneziano, che non ebbe nemmeno il tempo di finire di mangiare: il suo corpo infatti venne trovato tra le macerie mentre stringeva ancora un grappolo d’uva nella mano.
Come ha fatto notare Leonardo Sciascia, fu soprattutto la tradizione popolare a tramandare la memoria della sua figura e delle sue rime, finché nell’800 comparvero finalmente le prime edizioni stampate dei suoi componimenti, tratti dalle carte autografe conservate in diversi archivi. I critici letterari, anche quelli maggiori come Benedetto Croce, ne apprezzarono subito lo stile e la qualità, ma in realtà Antonio Veneziano resta soprattutto un esempio emblematico di tanti poeti e letterati siciliani, anche di talento, che rimangono ad andar bene semisconosciuti, ma spesso dimenticati totalmente dalla storia della letteratura.
Fonti:
Vincenzo Di Maria, I poeti burleschi dal 1500 al 1650, Tringale Ed.
Antonino Corso, Antonio Veneziano, in: www.ereticopedia.org
Costanzo Di Girolamo, Antonio Veneziano poeta figurativo, 2015
Nota. Il Castello a Mare di Palermo, più volte ampliato, demolito, e restaurato nel corso dei secoli, venne quasi del tutto smantellato tra il 1860 e il 1922. Alcune sue parti (come il bastione di S. Pietro, nella foto di Vincenzo Miceli, tratta da Wikipedia) si possono ammirare nel Parco archeologico del Castellammare, nei pressi della Cala, nel quartiere la Loggia, a nord del porto di Palermo. Salvo diverse disposizioni, le visite sono consentite tutti i giorni tranne il lunedì (domenica e festivi solo di mattina), al costo di pochi euro.
Testo di Ignazio Burgio. Le due immagini pittoriche ritraggono Antonio Veneziano in un quadro di Salvatore Giaconia, e il Castello a Mare in un dipinto dell’epoca. Ambedue, tratte da Wikipedia, sono di pubblico dominio.